INTERVISTA A VALENTINA PELLICCIA, AUTRICE DI ‘ZUCCHERO FILATO’

 

 

 

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Valentina Pelliccia autrice di Zucchero Filato

 

 

 

1. Ciao Valentina, grazie per aver scelto di fare questa intervista con me. Inizierei con il chiederti un po’ di te. Come mai hai deciso di “buttarti” in questa prova da scrittrice?

 

Grazie a te per l’opportunità e per l’interesse mostrato nei confronti del mio romanzo. Ho cominciato a scrivere poesie all’età di undici anni.
Ho frequentato studi classici e umanistici durante la Scuola superiore, anche se poi ho deciso di laurearmi in Giurisprudenza.
Dunque, l’amore per la lettura, la scrittura, la letteratura c’è sempre stato. Ricordo ancora con malinconia le lezioni al liceo. Ho frequentato l’Istituto Sacro Cuore di Trinità dei Monti a Roma (che sviluppa una cultura di relazioni ispirata ad una tradizione cristiana, umanistica, liberale e democratica condivisa), un piccolo tesoro immerso in un parco enorme che si affaccia direttamente sulla scalinata di Piazza di Spagna, proprio accanto alla “Casa museo” del mio poeta preferito, John Keats (un vero appartamento che, tra il 1820 e il 1821, ospitò il poeta inglese e il suo amico Joseph Severn. E’ proprio lì che il 23 febbraio 1821 John Keats morì, a soli venticinque anni, nella sua stanza affacciata su Trinità dei Monti). E’ stato fonte di ispirazione, oltre che ovviamente molto formativo, assistere alle lezioni di letteratura latina, italiana, inglese e francese in un contesto di tale bellezza che custodisce da secoli meraviglie quali il chiostro, la chiesa, gli affreschi di Daniele da Volterra, due anamorfosi affrescate sui corridoi della clausura, l’astrolabio, il refettorio dipinto dal gesuita Andrea Pozzo, la cappella di Mater Admirabilis e tutta la natura intorno.
Ascoltavo, incantata, le lezioni di letteratura latina (in particolare, Cicerone, Catullo, Omero, Seneca, Fedro, Sant’Agostino, Dante Alighieri, Francesco Petrarca, Virgilio, etc), di letteratura italiana (il Dolce Stil Novo, ma soprattutto il romanticismo italiano, Ugo Foscolo, Giacomo Leopardi, poi, Nicolò Machiavelli, Giovanni Pascoli, Gabriele D’Annunzio, Luigi Pirandello, Italo Svevo, Umberto Saba, Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo, Eugenio Montale. Per quanto riguarda la generazione degli anni trenta, ho amato e amo Alda Merini). Ascoltavo, incantata, anche le lezioni di letteratura francese (in lingua francese, grazie ad una Professoressa, Barbara Bottari, che mi ha trasmesso l’amore per la cultura): e così, ero sempre più curiosa della vita, dello stile, delle opere di autori come Molière, favole, racconti e riflessioni di La Fontaine, Perrault, La Rochefoucauld, Voltaire, Montesquieu, Hugo, Balzac, Stendhal, ma soprattutto i “Poeti maledetti”, Baudelaire e poi, Jacques Prévert, Marcel Proust, Jean-Paul Sartre, Antoine de Saint- Exupéry.
Ho amato e amo la letteratura inglese, come già scritto sopra, Keats, Byron, Shelley, William Shakespeare, John Milton, Laurence Sterne, Jane Austen, le sorelle Brontë, Virginia Woolf, Kipling, Hemingway e soprattutto James Joyce.
Insomma, questi studi non hanno fatto altro che alimentare e far esplodere in me l’amore per la lettura e la scrittura.

2. Com’è nato il tuo libro? Hai preso spunto da qualcosa?

Nel 2004, a soli diciassette anni, proprio durante l’ultimo anno di liceo, “fresca di studi”, ho iniziato a scrivere il mio primo romanzo, “Zucchero filato”, con il quale ho partecipato alla VII Edizione del Premio Nazionale di Narrativa “Valerio Gentile” (con una giuria composta da persone importanti del mondo della cultura, professori universitari, scrittori, giornalisti). Il libro si è classificato al primo posto ed è stato, per tale motivo, pubblicato dalla Casa editrice Schena. In seguito, è stato distribuito dalle maggiori Case editrici, Mondadori, Feltrinelli, etc.
Sono venuta a conoscenza del Premio Nazionale di Narrativa per caso, tramite web. Anzitutto, mi sono informata su chi fosse Valerio Gentile, perché il Premio era ed è intitolato alla sua memoria. E mi è venuto da piangere. Sono scoppiata in lacrime. Valerio Gentile era un ragazzo, un poeta, appassionato di studi umanistici, che fu trovato morto il 14 marzo del 1993, a diciassette anni (avevo anche io diciassette anni e questo fatto mi colpì molto), a Fasano, nei boschi in zona ‘Monacelle’ con il cranio sfondato a pietrate, a faccia in giù. Dalle indagini ho appreso che si è trattato di un delitto a sfondo sessuale. Purtroppo il caso è rimasto senza colpevoli. Il padre (Nicola ) e la madre hanno deciso di fondare il Centro Studi, l’Associazione Culturale e questo importante Premio Nazionale di Narrativa.
La vicenda mi scosse molto e, a tal proposito, ti svelo una confidenza che non ho mai fatto a nessuno: con questo libro io ho voluto principalmente, nel mio piccolo, cercare di dare indirettamente un messaggio di speranza anche ai genitori del ragazzo, pur non conoscendoli.
Una famiglia è a pezzi, distrutta, presumo, dopo un lutto del genere. Loro sono riusciti a mettere da parte questo dolore atroce (per quanto si possa mettere da parte, data la gravità del fatto) e a creare un grande progetto dal punto di vista umano e culturale, in memoria del figlio. Inoltre, hanno creduto nel talento dei giovani e lo hanno portato avanti dando loro l’opportunità di essere letti, giudicati e premiati da una giuria di persone di alto livello culturale. E poi, Valerio Gentile amava scrivere: i genitori, con questa iniziativa, hanno portato avanti il valore e il sogno del figlio.
“Zucchero filato” nasce così. Vuole essere un piccolo raggio di luce anche quando si è immersi nel buio più totale. Vuole essere anche il simbolo della purezza (da qui il titolo, fanciullesco, “Zucchero filato”) in una società, questa, spesso piuttosto marcia e priva di valori.
Il mio libro tratta principalmente il tema della violenza psicologica e sessuale per questo motivo: si parte da una condizione rosea vista dagli occhi di un’adolescente ( Colette, la protagonista) per avvicinarsi sempre più al dramma vero e proprio, la violenza. Dopo quest’ultima, Colette riuscirà, pian piano, a ritrovare la forza in se stessa. E’ proprio questa alternanza “condizione rosea e violenza sessuale” che, nel complesso, sottolinea e rende più forte il messaggio di speranza finale.
Come ha affermato il Professor Pietro Magno: “Come modello narrativo questo romanzo di Valentina Pelliccia ricorda il quarto libro dell’Eneide di Virgilio, in cui l’evolversi dello sfortunato e, soprattutto, impossibile amore di Didone verso Enea è presentato secondo le cadenze tipiche del dramma”. E poi, ha aggiunto : “Sono i motivi per cui questo romanzo riesce a pervenire al simplex et unum oraziano (Ars poet,23), condizione ancora valida per stabilire quanto un’opera risponda a canoni di compattezza”.
A distanza di 17 anni continua inaspettatamente a vincere importanti Premi, come ad esempio, ad agosto 2020, il Concorso “Tre Colori”, ideato da Ermete Labbadia.

3. Ogni scrittore credo che provi qualcosa di diverso durante la scrittura, tu, Valentina, cosa provi?

La scrittura è la mia vita. Non sono in grado di fornire una definizione di “vita”, così come non sono in grado di dare una definizione di “scrittura”. La scrittura mi ha salvato. La scrittura mi salva ogni giorno, anche in questo momento in cui sto rispondendo alle tue interessantissime domande. Quando scrivo io sento di vivere davvero.

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4. Parlami della tua protagonista, sbizzarrisciti.

 

Colette è una bambina, una piccola donna di quattordici anni. Il suo è un mondo ovattato, protetto. Improvvisamente cresce, si trova a dover affrontare da sola la vita. E proprio quando si presta a vivere la sua prima vera libertà, qualcuno la violenta, contaminando la sua anima, la sua purezza e infrangendo così i suoi sogni. Colette rimarrà immobile (nel vero senso della parola), e così rimarrà per giorni, mesi interi. Non riuscirà a parlare, subirà la vita. Subirà. Ancora una volta. Tuttavia, proprio questa condizione di distruzione, di “immobilità totale”, di non-vita, di suicidio interiore, è il passaggio fondamentale per ritrovare il coraggio di andare avanti. Colette riesce, grazie alla sua forza interiore, grazie all’appoggio dei genitori, grazie all’amore, a riprendere in mano la sua vita. Come ho affermato prima, è un racconto che fa capire quanto sia importante essere forti per se stessi e gli altri. Il romanzo, infatti, si conclude così: “Anche nel buio totale dobbiamo cercare un piccolo fascio di luce che ci illumini e ci dia speranza”.

5. In che luogo e periodo è ambientata la tua storia?

A Roma, ma potrebbe essere ambientata in qualsiasi città e nel periodo attuale.

6. Cosa rende speciale i tuoi personaggi? Cosa li distingue dagli altri?

I personaggi rappresentano, nel bene e nel male, persone vere, pur non essendo questo un romanzo autobiografico. Questo conferisce autenticità ulteriore all’opera.

7. Da cosa è mossa la tua protagonista? ( Ad esempio, amore, rabbia, vendetta, dolore, etc..) e qual è il suo obiettivo?

Colette vive in modo del tutto ingenuo e spensierato la sua età, finché non accade il “fattaccio”. Il suo obiettivo (inconscio) è riprendersi la sua vita, dato che le è stata tolta. Così, compie un percorso “catartico” per cercare di riappropriarsi della sua forza interiore. Il suo obiettivo è sopravvivere in una società spesso ostile, egoista, dove le persone, soprattutto gli uomini, sono spinti e accecati solo dai loro bisogni e dalle loro pulsioni sessuali. Il suo obiettivo (che tento di far arrivare ai lettori, da narratore onnisciente) è quello di riprendersi il suo spazio in una parte di vita sana e non malata come quella di cui purtroppo è stata succube.

8. Perché hai dato quel nome al tuo protagonista? Qual è il significato che si cela sotto?

Mi ricollego alla tua prima domanda: amo la letteratura francese.
Colette (pseudonimo di Sidonie – Gabrielle Colette) non è una delle mie scrittrici più stimate per via della sua carica libertaria, amorale e ribelle, ma per caso, in biblioteca, mi capitò tra le mani il suo romanzo “La Chatte” (1933) e da lì mi innamorai del suo nome. Trovo che il nome Colette, come già affermato da un’altra giornalista in un articolo, racchiuda una raffinata musicalità difficilmente traducibile nelle altre lingue. Il solo nome è poesia, è breve, elegante, femminile.

9. Piccolo estratto e recensione del libro da parte del Professor Pietro Magno

“Ci troviamo di fronte ad un libro in apparenza semplice, chiaro, lineare, tanto che riesce a recuperare la funzione della trama. Però, leggendolo più attentamente, vi si notano delle forme stilistiche complesse. La sua struttura, infatti, ricorda le cadenze tipiche della tragedia classica. Come modello narrativo ricorda il quarto libro dell’Eneide di Virgilio, in cui l’evolversi dello sfortunato e, soprattutto, impossibile amore di Didone verso Enea è presentato secondo le cadenze tipiche del dramma.
In questo “Zucchero filato” si parte da una condizione tutta rosea vista dagli occhi di un’adolescente che si sta avviando verso la giovinezza con le speranze, i desideri, i sogni da “principe azzurro”, da primo bacio, per avvicinarsi sempre più all’atto finale, al dramma vero e proprio, alla catarsi, che ha un solo terribile nome: “violenza”. Tale conclusione, che segnerà per sempre il destino di questa ragazza, Colette, pare sempre stare in agguato, pronta a prorompere con tutta la sua forza devastante nel racconto. Ma questo fato, che incombe ineluttabile, non è assolutamente avvertito all’inizio dalla ragazza. E questo è il tipico espediente della tragedia classica. Si pensi ad Edipo, dapprima felice e potente, e poi, a mano a mano che scopre la sua orribile verità, sempre più misero e abbandonato da tutti. Pur essendo su tutta un’altra dimensione rispetto al mito, dal punto di vista psicologico vi sono delle indubbie analogie. Sino alla fine Colette ignora il suo destino, non può che ignorarlo; nonostante vi siano dei preannunci, questi ultimi vengono colti da chi legge,dallo spettatore (dal coro anticamente). E cosa di più tragico che ignorare sino alla fine il proprio destino? La violenza viene rimandata a un momento all’apparenza senza pericolo; ma l’appuntamento finalmente con Alberto, la gioiosa fretta nell’arrivare, farà prendere alla ragazza la scorciatoia sbagliata attraverso una via semi oscura e non frequentata, ove avverrà il fattaccio. Quella che doveva essere l’apoteosi si trasforma nell’inferno. Ne deriva una descrizione quanto mai lancinante come una lama che penetra. Soltanto alla fine si compie la purificazione, la catarsi della tragedia, col risveglio dal torpore mortale grazie ad Alberto, al suo ragazzo che le ritorna vicino. Sono i motivi per cui questo romanzo riesce a pervenire al simplex et unum oraziano (Ars poet,23), condizione ancora valida per stabilire quanto un’opera risponda a canoni di compattezza. “Zucchero filato” lo dimostra, nonostante ci troviamo di fronte a una scrittura di una ragazza di diciotto anni. Quando io noto una scrittura giovanile la considero un buon segno di successiva maturazione: è un punto di partenza. Gli anni stessi ti porteranno a non essere più “audax iuventa”, ovvero “giovinezza ardimentosa” nel campo delle lettere, secondo la definizione usata da Virgilio. Acquisterai invece sempre più quella capacità di scrittura che viene data dalla meditazione, dalle pause, però occorre che ci sia questo passaggio. Penso di essere stato abbastanza esauriente nell’avere spiegato i motivi che hanno convinto la commissione a ritenere Valentina Pelliccia vincitrice della settima edizione del Premio nazionale di narrativa “Valerio Gentile” con il suo romanzo “Zucchero filato”.”

(Recensione del Professor Pietro Magno)

 

10. link acquisto

Potete acquistarlo in libreria, oppure sul sito internet della Mondadori, Feltrinelli e delle maggiori Case editrici.

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